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Diocesi di Bergamo - Ufficio Beni culturali
4° domenica di Pasqua - ciclo B   versione testuale
Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.







 
Vangelo Gv 10,11-18
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
 
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio». 
 
Tra le opere presenti nella nostra diocesi ispirate da questo brano, è stata scelta la seguente:
 
Stampa a bulino
Martinengo  
 
- Commento teologico dell'opera di cui sopra:
La figura di Gesù Buon Pastore è tradizionale e straordinarie immagini dominano la storia dell’arte. Come noto, è una delle immagini più antiche e più amate dalla tradizione cristiana. Insieme, però, all’arte “maggiore” che ha illustrato più volte il buon pastore del capitolo 10 del vangelo di Giovanni, molta arte “minore”, più liturgica, più legata agli oggetti delle celebrazioni e alla catechesi, ne ha fatto largo uso. Il messale di Martinengo appartiene, in tutta evidenza, a questo secondo filone.
La figura del buon pastore troneggia al centro, enorme, possente. Da solo occupa la maggior parte dello spazio. Le pecore sbucano da destra, con dei passettini leggeri, leggiadri. Hanno i musetti piccoli e affilati. “Io sono il buon pastore” si potrebbe tradurre, come noto, alla lettera: “Io sono il bel pastore”. Nell’immagine, non è bello soltanto il pastore. Sono belle anche le pecore. Sembrano, con i loro sguardi, abbozzare un dialogo. La pecora che si trova al centro guarda verso il pastore o, forse, verso la pecora che si trova sulle ginocchia del pastore. Le quattro pecore sembrano dunque, dialogare a due a due fra di loro. Altre pecore stanno arrivando, dietro. Curiosa, bizzarra perfino, la pecora che si trova sulle ginocchia del pastore, accartocciata su di sé, sembra gustare, come un gattone che fa le fusa, le carezze del pastore.
Al centro di tutto, dunque, lui, il pastore. Ha gli occhi socchiusi, regge un lungo bastone che taglia trasversalmente tutta la sua figura, è circonfuso di luce. L’aspetto sacro dell’immagine ha svuotato da dentro i suoi connotati. Il pastore à talmente Gesù che non è più pastore.
Un solo particolare naturalistico è rimasto: i piedi scalzi. I quali, forse, abbinati al bastone che non dovrebbe solo servire per “governare” le pecore ma per camminare, allude al molto “andare” del pastore davanti al suo gregge. Il pastore, infatti, non è lì per rinchiudere le pecore nell’ovile, ma per condurle fuori, perché camminino dietro a lui e portino ovunque l’inenarrabile dedizione che lo porta a spendersi continuamente per le “sue” pecore.
 
 
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